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Siamo quel che ricordiamo

  • Immagine del redattore: gerardo_m
    gerardo_m
  • 17 mar 2021
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 29 set 2021

La nostra memoria non funziona come quella dei computer; non è che da qualche parte del nostro cervello c’è archiviato ogni nostro ricordo, da poter richiamare intatto alla memoria ogni qual volta vogliamo. La memoria è piuttosto un’opera di ricostruzione, di rimessa insieme di tanti frammenti associati ad un evento: quello che è accaduto, le percezioni ad esso associate, le emozioni che si riattivano, i pensieri che si rimettono in moto.

La memoria è dunque in qualche misura un atto creativo: non è la fotocopia dello stesso racconto, ma è ogni volta il racconto rivisto e aggiustato. Il ricordo è condizionato da quanto ci sta accadendo nel presente e – addirittura! – dalle aspettative che oggi abbiamo riguardo al futuro. Ricordare è quindi un viaggio nel tempo, dal passato rielaborato, al futuro desiderato, attraverso il presente che ci scivola tra le dita.

Tra memoria creativa e identità c’è una stretta relazione. In fondo noi cambiamo continuamente nel corso degli anni e dei decenni, ma siamo perfettamente consapevoli di essere sempre noi stessi, attraverso il tempo. Riconosciamo nel nostro io che cambia una continuità. Questa sensazione chiara e distinta di essere titolari di un’identità costante e il frutto anche della nostra memoria creativa. Adattiamo i ricordi del passato a quello che siamo oggi, a quello che vorremmo essere domani.

Questa operazione di riscrittura della nostra storia e della nostra identità ci rassicura: ci piace – o ci serve? – dare un senso alla moltitudine di eventi che ci sono accaduti nel corso della nostra vita. Siamo in fondo tutti degli autobiografi; pochissimi di noi vedranno mai in libreria il libro che su di noi abbiamo scritto e riscritto, ma ci sentiamo comunque autori ed interpreti di una storia che merita di essere raccontata. E spesso è proprio questo che facciamo: raccontarci, trasformando la memoria da atto individuale ad esperienza che alimenta la relazione con gli altri.

Ci raccontiamo agli amici; e con loro ritorniamo agli episodi vissuti insieme, li riviviamo per rinsaldare la nostra amicizia. E quanto ci arricchisce sentire l’amico che racconta di noi! A volte ravvivando sfumature di memoria che noi abbiamo trascurato.

Ci raccontiamo nella relazione amorosa; quanta parte del corteggiamento è alimentata dal racconto di sé? Per dire all’amato o all’amata: “se vuoi potrai conoscermi col tempo, ma intanto io ti dico che oggi sono così perché in passato ho fatto questo e quello…”. Ed è forse proprio nell’amore che il racconto di sé diventa più facilmente il racconto di noi, spostando il focus dell’attenzione dal passato (“questa è stata la mia vità senza di te”), al presente (“oggi ti amo e desidero il tuo amore”), al futuro (“domani insieme faremo…”).

L’ho già scritto da qualche altra parte, ma mi piace ripeterlo: noi siamo non solo la nostra autobiografia, ma anche la biografia che di noi raccontano i nostri amici, parenti, amanti. Una biografia che potrà continuare ad essere raccontata anche quando noi non ci saremo più; al momento della nostra morte i nostri cari potranno placare il dolore della nostra mancanza, riempiendo col racconto e col ricordo il vuoto che si è venuto a creare.

In alcuni casi – purtroppo sempre più di frequente – il racconto dell’altro è necessario prima della sua morte. Quando va in frantumi l’identità del nostro genitore colpito da una qualche degenerazione cerebrale, sta a noi – figli – ricordare e raccontare la storia di una vita.

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